Ex-YU

Storie dalla ex-Jugoslavia

IN RICORDO DI ĐORĐE BALAŠEVIĆ

IN RICORDO DI ĐORĐE BALAŠEVIĆ
Đorđe Balašević, foto tratta da kurir.rs
Đorđe Balašević, foto tratta da kurir.rs. Foto in home page tratta da youtube.com.

 

Il 19 febbraio è morto a Novi Sad il famoso cantautore jugoslavo Đorđe Balašević (1953 – 2021). Lo ricorda Edvard Cucek  in un articolo, già apparso sull’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa il 24 febbraio.

Buon vento, mio caro Balaš

Caro mio,

tra le tante cose che vorrei dirti penso comunque a quelle che sei riuscito a dire a noi. Ad una in particolare. Che hai scritto tempo fa: “La vita? Sai quando sulla tomba c’è la data della nascita e la data della morte? Ecco, quel trattino in mezzo… quella è la vita”. Il trattino tra le tue due date, rimasto troppo corto, appartiene anche a noi. Noi di ogni età. Credo di poterlo dire a nome della tua di generazione, quella degli anni ’50, ma anche della mia, degli anni ’70… ed a nome di quelli che devono ancora nascere. Ti ameranno anche loro.

Ci lasci caro Balaš. Mi è sempre piaciuto chiamarti semplicemente Balaš. Ormai da decenni sei il nostro Đole Balaš. Ci lasci proprio adesso. Anche se sono sicuro che non sarebbe mai arrivato “il momento giusto” per perderti. E che sarebbe stato prematuro anche se te ne fossi andato fra 20 anni.

Mi auguravo che questo momento accadesse quando anch’io fossi stato anziano. Ma non è avvenuto così. E ora cerco di ricordarmi quando per la prima volta ho sentito una delle tue intramontabili canzoni. Una delle tue poesie accompagnate dalla musica.

E non mi ricordo.

Già alle elementari cantavamo le tue storie di vita. Quelle inserite nel programma scolastico come “Računajte na nas” (Contate su di noi) e quelle che ci piacevano da morire, quando volevamo divertirci. Come “Mirka” o l’altrettanto leggendaria “Za sve je kriv Toma Sojer” (Tutta colpa di Tom Sawyer). Ma non mancavano le canzoni d’amore come “Lepa protina kći” (La bella figlia dell’arciprete) oppure “Život je more” (La vita è il mare) che cantavamo durante le scolaresche lanciando gli sguardi alle nostre giovanissime “Olivere”.

Non è mia intenzione elencare in questa occasione tutto quello che hai scritto e che ci hai regalato, ma potrei orgogliosamente dire che conosco quasi tutto il tuo operato. Da poeta, scrittore, musicista, attore, ambasciatore di pace… Da uomo! Scritto con i caratteri cubitali.

Non mi ricordo però quando ti sei presentato per la prima volta alla mia generazione. Non mi ricordo da quando ci consociamo noi due, mio caro Balaš. Pare da quando ho cominciato a coltivare sentimenti e custodire ricordi.

Tutta la mia vita, dunque.

Sono in molti che come me potrebbero esprimere sentimenti simili: senza di te saremmo sicuramente cresciuti in modo diverso. Più poveri. Meno felici, anche quando soffrivamo per i nostri primi amori (e anche per quelli successivi a dire il vero) immersi nelle tue canzoni.

Come riuscivi a farlo? Eri tremendamente sincero raccontandoci la tua vita. Ecco perché ci ritrovavamo sempre in uno dei protagonisti dei tuoi racconti musicali. Nei tuoi poemi che non lasciavano spazio per le interpretazioni. Ecco perché davanti ai primi accordi delle tue canzoni si abbracciavano quelli che amavano la musica heavy metal con quelli che amavano la musica punk. Si faceva pace. Quella che invocavi, durante la tua lunga carriera da cantautore iniziata ancora nel 1977. Eri il solo che riusciva, con le tue magiche note, a fare in modo che uno che non ascoltava altro che i Sex Pistols piangesse insieme ad un feroce fan degli Stray Cats. Facevi i miracoli caro mio. Almeno uno dei nostri brani composti da adolescenti doveva assomigliare sia nel testo che nella musica alle tue canzoni. Altrimenti si era “scarsi”.

Sono stato fortunato a vederti ed a poterti ascoltare in concerto. Che a quell’epoca sfociavano in crisi tra le giovani repubbliche ex jugoslave. Ti ho visto per la prima e l’ultima volta nel lontano 1997. Vent’anni della tua carriera celebrati con un concerto organizzato in primis per il pubblico croato e bosniaco a Lubiana. Mi ricordo le due ragazze di Mostar sedute di fronte a me e il mio amico d’infanzia che canticchiavano tutto il tempo. Mi ricordo di una signora, all’epoca 40 enne, che sul pullman per Lubiana viaggiava da sola. Pensierosa ma dall’aria incredibilmente romantica. Mi domandavo cosa la spingesse a venirti ad ascoltare.

In Croazia ancora non potevi cantare. Davi fastidio un po’ a tutti degli establishment statali in quegli anni. Eri scarso come serbo, in quanto di madre slovena e di presunte origini paterne ungheresi. Troppo legato a quella Vojvodina autonomista. Sostenevi il premier assassinato Zoran Đinđić e criticavi apertamente il regime di Slobodan Milošević. Un vero croato non sei mai stato, nonostante fosse impossibile separare te, Arsen Dedić e Oliver Dragojević le leggende della scena musicale croata, da qualche anno scomparsi anche loro. Amavi e difendevi troppo la Bosnia di tutti i suoi cittadini. Sei andato a cantare a Sarajevo troppo presto dopo l’assedio e questa mossa in tanti non te l’hanno mai perdonata. In primo luogo i “miei” e i “tuoi” di Banja Luka.

Non eri di nessuno di loro. Ma eri nostro fino in fondo.

E così quell’anniversario dei vent’anni di carriera, da Zagabria, dove era cancellato, fu spostato a Lubiana, facendo infuriare chi spingeva per l’isolamento della Croazia dal resto della regione balcanica sino ad arrivare ad un vero e proprio incidente diplomatico con la Slovenia: ero in uno di quei 22 pullman, partiti da Zagabria, fermati dalla polizia croata al confine croato-sloveno di Bregana. Ci hanno schedati uno ad uno. Il rischio di non arrivare a Lubiana quel primo dicembre del 1997 in tempo per l’inizio del concerto fu altissimo. La tensione era alta. Non ci permisero per diverse ore di scendere dai pullman mentre da fuori sentivamo quelli che dovevano essere degli insulti. Ci chiamavano jugonostalgici.

La stessa cosa sarebbe poi accaduta alle due di notte, nel rientro a Zagabria. Ma fu meno drammatico. Eravamo ormai purificati dal tuo concerto, disarmati dalla potenza della tua esibizione di 4 ore e mezza senza che nemmeno bevessi un bicchiere d’acqua. Quella notte sei diventato definitivamente il mio re. Il re del piccolo mondo di un profugo bosniaco di 22 anni con “l’indirizzo forzato” in una delle città della pianura croata. Ti ho visto da vicino. Tanto vicino che sono riuscito a lanciare una letterina, come da tradizione, sul palco. L’avrai mai letta? Non importa. Lì non c’era scritto niente altro di quello che tu non ci avessi già insegnato. Amore e pace prima di tutto.

Eri una specie di guardiano durante i miei anni di guerra, durante quelli da profugo scombussolato, durante i travagliati periodi della vita nella mia nuova patria italiana. Tutti i tuoi album hanno viaggiato con me ovunque.

C’eri sempre. Io ci sono soltanto adesso. Sarebbe stato più onesto se avessi scritto queste righe mentre cantavi ancora. L’indirizzo lo sapevo. Da sempre. Eri sempre tu a ricordarcelo nella tua famosissima “Neki novi klinci” (Alcuni fanciulli nuovi).

Ho tentato di avvicinarmi anche un’altra volta. Era l’agosto del 2019. Insieme alla famiglia feci una sorta di jugo-tour. Per la prima volta nella vita abbiamo visitato la tua magnifica città, Novi Sad. La regina della tua Vojvodina. A tutt’oggi culla del multiculturalismo. Ferita ma viva.

Siamo stati tentati, ma non abbiamo osato, di suonare alla tua porta, qualche minuto prima delle 22.00 di un martedì. Lo facevano in tanti, sperando che qualcuno si sarebbe affacciato, a cui lasciare per te un messaggio. Se aveste aperto a tutti in qualsiasi ora della notte… Figuriamoci. Forse però se tu avessi saputo da dove venivamo per vederti…?!

Non importa caro mio. Non ha molto senso ricordare qui le moltissime verità da te cantate. Vorrei però riprendere un verso della tua canzone intitolata “Panonski mornar” (Marinaio pannonico);

Il mio mare non c’è e non so cosa fare

Mio padre dice che il Danubio non è male

Il mio mare non c’è ma io vivo nella speranza

Che comunque da qualche parte ci incontreremo ancora

 

Proprio a me che capita ‘sta cosa

Questa è storia per le lacrime e per ridere

Qualche marinaio forse rimane senza nave

Ma senza mare, questa è una sfiga particolare…

 

Troverai laddove sei andato il tuo mare perduto. Sono sicuro. Aspettaci. Ci saremo in tanti imbarcati sulla tua nave. Prima o poi. Buon vento mio caro Balaš.

Padre e figlio: Leonardo e Bruno Bancher, due figure della storia del Trentino e della Bosnia

Padre e figlio: Leonardo e Bruno Bancher, due figure della storia del Trentino e della Bosnia
Dal Trentino alla Bosnia: due destini tragici, accomunati dal desiderio di giustizia e dal coraggio di scendere in campo, a costo della vita (articolo di Edvard Cucek in collaborazione con Alice Sommavilla, gia apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa il 9 aprile 2020, clicca qui per leggere l’orginale, foto tratte dal sito OBCT)

È stato il semplice sfogliare un libro regalatomi dall’amico e coautore Tihomir Knežiček a suscitare il mio interesse per la famiglia Bancher. Per raccontare la storia completa di questa famiglia straordinaria ci vorrebbe molto più spazio e di certo la mano di qualcuno all’altezza del compito. A questo modesto tentativo di raccontare i Bancher dovrebbero seguirne molti altri. Il Trentino dovrebbe sapere quanti suoi «figli» si sono avventurati per il mondo, arricchendolo di idee nobili e gesta eroiche.

Secondo il mio modesto punto di vista sono Leonardo Bancher e il figlio Bruno a meritare di essere ricordati nella storia trentina e bosniaca ed è per questo che mi appresto, pur azzardandomi un po’, a proporre al pubblico italiano, specialmente quello trentino, quanto già descritto nella monografia «Stoljeće Italijana u Tuzli» (Secolo degli Italiani a Tuzla), cercando di offrire qualche dettaglio in più proveniente da altre fonti attendibili. Una storia che inizia a Siror nel Primiero e finisce su un ponte a Sevran nella Parigi occupata dai nazisti. Una storia che forse, almeno finché rimarrà viva nella nostra memoria, potrebbe e dovrebbe non finire mai.

I Bancher erano originari del Primiero. Nel 1911 il capo famiglia Luigi Domenico Bancher, muratore che per lavoro si era già spostato in diversi paesi del mondo, decise, assieme alla moglie Francesca Zanetell e ai tre figli, di insediarsi a Tuzla, in Bosnia-Erzegovina (all’epoca ancora parte dell’Impero Austroungarico) per cercare un po’ di fortuna. I figli Simone e Leonardo conobbero la Bosnia fin da giovanissimi. I ricordi del paese natio e delle montagne tirolesi che coltivava Leonardo, il più giovane, erano probabilmente molto pochi. Tuzla e la Bosnia divennero la loro nuova patria. Nonostante fossero circondati da molti connazionali, comprese tante famiglie tirolesi di artigiani arrivati alla fine del 19° e all’inizio del 20° secolo, i Bancher legarono molto di più con la popolazione locale e vissero il periodo tra le due guerre mondiali come se avessero le loro radici in quelle terre ormai da secoli.

Leonardo Bancher con la moglie e i figli, tra cui il maggiore, Bruno
Leonardo Bancher con la moglie e i figli, tra cui il maggiore, Bruno

austriaco, ritornò in Bosnia entusiasmato dalla Rivoluzione d’ottobre, impressionato dall’operato di Lenin e dalle sue teorie sul futuro della classe operaia.

Da quel momento Leonardo iniziò a schierarsi apertamente in favore degli operai, che nella Prima Jugoslavia della dinastia dei Karadjordjević vivevano in condizioni estremamente sfavorevoli.

Convinto sostenitore della parità dei diritti

Professionalmente seguì le orme del padre, diventando un muratore molto apprezzato, ma nel suo intimo era innamorato dei libri. Oltre ad essere un avido lettore era anche un abile musicista, una persona umile, sincera e sempre disposta ad aiutare chiunque ne avesse bisogno.

Già nel 1919 Leonardo Bancher insieme al fratello Simone ed altri tirolesi-trentini, tra cui anche la famiglia Mott, iniziò a militare all’interno del movimento in favore dei diritti della classe operaia. Nel 1920 sposò Ljubica Jerkić, la donna che rimase accanto a lui per tutta la vita, condividendo gli stessi ideali di vita sulla parità dei diritti come imprescindibile condizione per la costruzione di un mondo migliore.

Nello stesso anno entrò in vigore il «Decreto» del Governo del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente Regno di Jugoslavia), conosciuto come «Obznana». Il decreto proibiva definitivamente lo svolgimento delle attività del Partito Comunista, terzo partito nel parlamento, mettendo di fatto i suoi aderenti in una posizione di illegalità.

Oltre a questo gesto, che rappresentò di fatto il prodromo dell’avvento della dittatura, i diritti degli operai, seppur garantiti dalla nuova Costituzione, furono drasticamente ridotti. Per ribadire questa decisione, il governo di Belgrado nell’anno successivo introdusse la «Legge sulla protezione dello Stato», che negava totalmente anche il minimo spazio di azione ai rappresentanti dei lavoratori nell’esercizio dei propri diritti attraverso mezzi legali.

Punto di riferimento per gli operai di Tuzla

In quelle circostanze, le famiglie trentine Bancher e Mott, si impegnarono in modo inaspettato e senza risparmiarsi. Inizialmente sostenendo la causa e diventando via via i veri artefici e punti di riferimento per il movimento degli operai nella regione di Tuzla.

Pur non avendo radici slave, si fecero portavoce e divulgatori di quelle idee che aspiravano ad unire gli operai di tutta Europa.

Raccontare le imprese di Leonardo Bancher non è affatto semplice. Fortunatamente tanti ricordi e episodi sono stati salvati nell’importante volume dedicato alla lotta operaia intitolato «Tuzla u radnickom pokretu i revoluciji» (Tuzla: il movimento degli operai e la rivoluzione).

La regione di Tuzla, industrializzata ancora dai tempi dell’Impero Austroungarico, era considerata un centro all’avanguardia. Il numero degli operai impiegati nelle fabbriche superava di gran lunga quello degli agricoltori. Per affrontare le cause della lotta operaia Leonardo si unì al neofondato movimento «Comitato di Tuzla» rimanendovi fedele fino alla sua tragica morte.

Quando su iniziativa del grande rivoluzionario Mitar Trifunović Učo, venne fondata la prima Associazione sportiva degli operai, «Gorki» (poi denominata «FK Sloboda»), Leonardo entrò da subito nel consiglio direttivo per diffondere le idee socialiste e rivoluzionarie tra i giovani atleti, diventando anche un abile dattilografo. Divenne il più abile distributore del materiale informativo, proibito in quanto incitava la classe operaia ad organizzarsi, iscriversi ai sindacati e opporsi alle oppressioni del governo. Scriveva per una pubblicazione clandestina intitolata «Fabbrica e campo», diventando di fatto un vero insegnante rivoluzionario e trasformando la casa dei Bancher nel vero quartier generale del movimento.

Nel dicembre del 1932 Leonardo Bancher insieme ad alcuni compagni fu tradito da un collaboratore, e successivamente arrestato ed imprigionato. Dopo aver retto le accanite torture interrogatorie, venne condannato a cinque anni di carcere duro, terminato il quale tutta la famiglia avrebbe dovuto essere estradata in Italia senza diritto di ritorno.

Anche in carcere lotta per la causa operaia

Leonardo venne dapprima processato a Belgrado e successivamente trasferito nel carcere di Sremska Mitrovica, dove continuò a diffondere le proprie idee tra i prigionieri, creando una rete di comunicazione che permetteva lo scambio di messaggi in codice senza bisogno di parlare o vedersi. Non smettendo nemmeno in carcere di promuovere la causa operaia, decise di aderire al grande sciopero dei carcerati del 1933, atto che compromise in maniera grave la sua salute.

Morì all’ospedale di Belgrado l’11 maggio del 1936 e fu sepolto già il giorno successivo nel cimitero ospedaliero. Poco prima del decesso ricevette la visita di tutta la famiglia. L’ultima immagine che conservano i suoi figli è quella del loro padre molto provato e in attesa di una donazione di sangue, pratica le cui spese erano all’epoca interamente a carico della famiglia del malato. Nonostante la trasfusione Leonardo non riuscì a farcela e la notizia del suo decesso portò ad una serie di sollevazioni popolari sia a Belgrado che a Zagabria. Alla vedova Ljubica fu inviata una lettera di solidarietà, speciale ed unica in quanto scritta e firmata da 136 prigionieri politici, tutti coloro che avevano condiviso quotidianamente le sofferenze assieme a lui.

Due giorni dopo la scadenza dei cinque anni di prigionia ai quali era stato condannato l’ormai defunto Leonardo, a casa dei Bancher si presentarono gli agenti di polizia con un documento della prefettura che obbligava la vedova Ljubica e i tre figli minorenni a lasciare il Regno di Jugoslavia, e dirigersi verso quello che era stato indicato come il loro «paese di provenienza», ovvero l’Italia di Mussolini, un luogo dove non si prospettava certo una situazione di vita ideale.

Ai bambini fu vietata l’iscrizione scolastica per l’anno 1937/38, e nel dicembre del ’37 vennero formalmente rilasciati i lasciapassare per tutta la famiglia.

La famiglia Bancher era molto stimata e conosciuta, e questo fece si che i numerosi compagni si adoperassero per trovare una soluzione in modo da evitare che dovesse espatriare per stabilirsi nell’Italia fascista.

Grazie ai fondi del cosiddetto «Aiuto Rosso» riuscirono a procurarsi dei biglietti e gli inviti per la famosa esposizione internazionale «Arts et Techniques dans la Vie moderne», la cui inaugurazione era prevista a Parigi nel maggio del 1937. Un’impresa tanto folle quanto geniale.

Verso la Francia con meta Sevran

I Bancher arrivarono in Slovenia, dove furono ospitati da una serie di conoscenti e militanti comunisti sloveni, e proseguendo il loro viaggio, anziché dirigersi verso il confine italiano, vennero «dirottati» verso l’Austria da dove, attraverso la Svizzera, raggiunsero la Francia. La destinazione finale avrebbe dovuto essere la Russia, ma un insieme di circostanze sfortunate impedì loro di arrivarci. La famiglia si stabilì a Sevran, nella periferia parigina, in un appartamento situato sopra al bar gestito dalla famiglia Goudard. L’edificio esiste ancora, ed oggi è conosciuto come «Place Gaston Bussiere».

Ljubica si diede da fare fin da subito lavorando come donna delle pulizie, mentre Bruno, ormai sedicenne, si iscrisse alle scuole professionali per seguire la tradizione di famiglia e diventare muratore. Furono loro due, una volta esauriti gli aiuti dei fondi solidali, ad occuparsi dei piccoli Vesna e Rinaldo.

La convinta adesione all’appello di De Gaulle

Anche se la moglie di Leonardo, Ljubica, dopo averlo sposato si era impegnata nel movimento degli operai e nei sindacati socialisti svolgendo operazioni di alto rischio e si era iscritta già nel 1923 al Partito comunista, il vero erede del padre rivoluzionario è stato il figlio maggiore, Bruno Bancher. Bruno nacque a Tuzla il 6 ottobre 1923 e non a Lubiana (Slovenia) nel 1922, come sostengono alcune fonti, prevalentemente francesi, basandosi su quanto scritto dall’autore francese Harlay André nel libro «Souvenirs de Bruno Bancher».

Harlay è sfortunatamente uno dei pochi, se non l’unico autore, ad aver dedicato delle pagine alla storia di questo giovanissimo eroe, originario della Bosnia ma con sangue trentino. Spero vivamente che in futuro altre persone possano raccontare in maniera esatta la storia di Bruno, correggendo i dati anagrafici scorretti finora diffusi. Grazie a Tihomir Knezicek e ad altri amici di Tuzla, siamo riusciti ad ottenere una copia del certificato di nascita di Bruno, e una serie di altri documenti che rendono questa storia, già di per sé straordinaria, ancora più particolare per la comunità trentina in Bosnia Erzegovina, così come per i cittadini di Tuzla.

Il leggendario annuncio del 18 giugno 1940, trasmesso sulle onde di Radio Londra, attraverso il quale Charles de Gaulle chiese ai francesi di continuare la lotta clandestina contro il Terzo Reich, non lasciò Bruno indifferente. Già nel 1941, ancora minorenne, prese parte alla Resistenza francese. Fu coinvolto in varie operazioni, compresa la liberazione di Sevran, il quartiere dove viveva.

All’inizio del 1944 fu costretto a sospendere le attività in quanto costretto ad arruolarsi nell’organizzazione «TODT», il cosiddetto «esercito dei muratori», mandati a terminare la costruzione del Vallo Atlantico (una muraglia cementificata sulle coste dell’Atlantico affiancata da una serie di fortificazioni pensate dal Terzo Reich per impedire lo sbarco degli Alleati).

Bruno non resistette a lungo. Riuscì a fuggire, e dopo un periodo passato a nascondersi nel quartiere di Saint-Germanin-en-Laye, protetto da un conoscente partigiano, si unì al movimento dei FTP (Franc-Tireurs et Partisans), all’interno della cosiddetta «Legione Garibaldina», diventando in poco tempo il comandante del 143° plotone.

Per tutto il 1944 Bruno Bancher organizzò e condusse diverse azioni per liberare Sevran e tagliare i collegamenti ferroviari verso il resto della città. Il 27 agosto durante un attacco di artiglieria nazista Bruno fu gravemente ferito nel tentativo di fermare un soldato tedesco, un’azione che si rivelò fatale. I compagni riuscirono a soccorrere Bruno ma il tentativo di salvargli la vita non ebbe successo. Morì il giorno dopo a soli 21 anni.

Madre e fratello sulla tomba di Bruno
Madre e fratello sulla tomba di Bruno

Una vita dolorosa ma dignitosa

La sua tomba si trova ancora oggi nel cimitero di Sevran e il viale che porta sul ponte dove la sua breve ma intensa vita finì oggi porta il suo nome, Bruno Bancher Avenue. Non credo che i residenti conoscano il suo percorso di vita affascinante, doloroso ma incredibilmente dignitoso.

Vale la pena ricordare che fino agli anni Novanta, a Tuzla ci fu anche una via intitolata a suo padre.

Alla moglie e madre di questi due eroi alla fine della guerra fu consegnata la Medaglia della Legione d’onore, principalmente per i meriti di Bruno ma anche per onorare il suo impegno e quello del fratello minore Rinaldo, che combatté in Jugoslavia a fianco dei partigiani di Tito fino al termine della guerra.

Nel corso dei miei approfondimenti ho potuto constatare come i documenti in italiano a disposizione di chi voglia intraprendere una ricerca su questa storia siano drammaticamente scarsi. Uno dei pochi testi che ho avuto modo di approcciare, è stato quello di Chiara Gobber, che nella sua opera «Letteratura del migrante- Mondo ex e tempo del dopo: un progetto interculturale sui Balcani», tocca l’argomento menzionando Leonida Bancher, nipote di Leonardo Bancher, scrivendo una riflessione sulle memorie di Leonida durante gli anni ’80, riflessione che verrà inserita all’interno di un’enciclopedia jugoslava pubblicata nel 1987.

 

 

 

Croazia, il passato che ritorna

Croazia, il passato che ritorna
In Croazia la politica fatica ancora a fare i conti con i crimini del movimento ustascia, che durante la seconda guerra mondiale ha fondato uno stato fascista, satellite del terzo Reich (lo Stato Indipendente Croato, NDH). Grande influenza hanno avuto i membri della diaspora anticomunista che, migrati all’estero negli anni della Iugoslavia socialista, sono tornati in Croazia negli anni ’90 e hanno dato forza al sentimento nazionalista che regnava nel Paese in quel periodo di guerra e divisioni. Ne parla Edvard Cucek in un articolo già uscito per atlanteguerre.it il 9/ 12/ 2019.

Nel testo due immagini dall’archivio di Nikola Majstorović dove si vede una giovane Zdravka Bušić che si esercita a sparare. In mezzo, lo stemma dell’esercito croato ai tempi di Pavelić ritratto in copertina durante una seduta del parlamento all’epoca del regime (1941-1945)

Indossava una divisa colore verde oliva. E con la pistola in mano e sulla spalla lo stemma dello Stato Indipendente di Croazia*, a metà degli anni Settanta nei boschi vicino alla città americana di Cleveland insieme ad un’amica si esercitava a sparare. La allora venticinquenne Zdravka Bušić, insieme al fratello Zvonko e al marito Vinko Logarušić, era anche membro della “Resistenza popolare croata”, un’organizzazione fondata dal generale Vjekoslav Maks Luburić dopo la seconda guerra mondiale. Questo comandante degli Ustascia era noto anche come “Il Guardiano” del campo di concentramento di Jasenovac (Croazia), dove furono commesse atrocità di massa contro Ebrei, Serbi, Rom e tutti gli altri oppositori al regime nazi fascista. Oggi Zdravka Bušić è sottosegretaria al ministero per gli Affari Esteri ed Europei.

Tutta la storia è partita da un giornalista croato – Nikola Majstrović – che attualmente vive e lavora in Svezia il quale ha avuto occasione, come lui stesso conferma, di scattare una le ormai famose fotografie che ritraggono la sottosegretaria da giovane mentre si esercita. Nei decenni passati Majstrović si è guadagnato notorietà perché ha scritto diversi libri e ha realizzato dei film sull’emigrazione croata nel mondo. Dimostrò omicidi, pubblicò fotografie e numerosi documenti riguardanti i movimenti secessionisti e le loro cellule operative che spesso compivano anche atti di vero e proprio terrorismo. Come persona molto informata sui fatti Majstorović nel 1976 fu ingaggiato dalla televisione nazionale svedese per realizzare un documentario sulla emigrazione croata intitolato: “Croati: terroristi o combattenti per la libertà?”.

 Un passato che non passa

Stemma dello Stato Indipendente Croato, da Wikipedia
Stemma dello Stato Indipendente Croato, da Wikipedia

In quel periodo, esattamente il 10 settembre 1976, il fratello di Zdravka, Zvonko Bušić insieme ai “camerati” della “Resistenza popolare croata” compie una vera azione   terroristica dirottando l’aereo passeggeri in volo da New York a Chicago. Dopo essere atterrato temporaneamente a Montreal e per dimostrare che le sue intenzioni erano serie, Bušić informò i media di aver piazzato anche una bomba in una stazione ferroviaria di New York. L’agente di polizia newyorkese Brian Murray morì durante il disinnesco dell’ordigno esplosivo. Un anno dopo Zvonko Bušić fu condannato all’ergastolo dalla magistratura statunitense. Le sue dichiarazioni anche in quel momento restarono invariate. Faceva di tutto per attirare l’attenzione della politica mondiale sulla situazione della Croazia e del popolo croato in generale nella Federazione jugoslava. Rifiutava di essere classificato come terrorista.

Secondo un altro giornalista croato Željko Peratović che collabora con Majstorović risulta che l’attuale sottosegretaria di Stato croata Zdravka Bušić era già membro della stessa cellula terroristica in quegli anni, come dimostrerebbero anche le fotografie scattate a Cleveland a metà degli anni Settanta e pubblicate in varie occasioni. Da quando lo scandalo ha causato una scossa nei palazzi del governo croato nel marzo di quest’anno coloro che chiedono spiegazioni e provvedimenti al premier croato Andrej Plenković sono sempre più numerosi.

 

Zdravka Bušić, foto tratta da Wikipedia
Zdravka Bušić, foto tratta da Wikipedia

Del caso si è occupato proprio in questi giorni anche Avdo Avdić, giornalista della testata “Žurnal”,  sollevando nuovamente il problema e sottolineando l’inaccettabilità del fatto che un personaggio con tale passato possa coprire un incarico politico così importante. Dopo il ritorno in una Croazia ormai indipendente, la Bušić è diventata nel 1992 subito consulente del primo Presidente croato Franjo Tudjman e in seguito è rimasta a capo dell’ufficio della presidenza fino al 1995 quando è poi entrata nel Parlamento croato rimanendo parlamentare sino al 2003. Dieci anni dopo, nel 2013, Bušić diventa deputata al Parlamento europeo. Oggi, sottosegretaria agli Affari Esteri ed Europei, affianca spesso l’attuale Presidente croata Kolinda Grabar Kitarović anche durante i viaggi istituzionali all’estero.

Željko Peratović sta chiedendo ripetutamente una dichiarazione dai vertici della politica croata riguardo il passato di Zdravka Bušić. Ma la risposta continua a non arrivare.

* Lo Stato indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska) fu costituito nel 1941 con l’aiuto dei Paesi dell’Asse. Guidato da  Ante Pavelić, il fondatore degli Ustascia, comprendeva la maggior parte della Croazia e tutta l’attuale Bosnia ed Erzegovina.

Eroina nei tempi delle tenebre: Diana Obexer Budisavljević

Eroina nei tempi delle tenebre: Diana Obexer Budisavljević

Diana Obexer, nata a Innsbruck nel 1891 e trasferitasi a Zagabria nel 1919 dopo aver sposato il chirurgo Julije Budisavljević, ha salvato migliaia di bambini dai campi del regime ustascia tra il ’41 e il ’45. La sua figura, scomoda sia per la Jugoslavia socialista che per i governi della Croazia indipendente degli anni ’90, è stata conosciuta solo nel 2003 con la pubblicazione postuma del suo diario. La ricorda Edvard Cucek in un articolo già apparso per Osservatorio Balcani e Caucaso (21/03/2019).


Le gesta di Diana Obexer Budisavljević sono forse paragonabili a ciò che fece il ben più noto Oskar Schindler, ed è difficile spiegare come un atto di umanità di questa portata sia stato nascosto all’opinione pubblica per quasi 60 anni.

Per uno come me, cresciuto ed istruito nel sistema scolastico socialista, molto attento a tenere viva la memoria degli atti di coraggio antifascista, il nome, le origini e l’opera di questa donna fino a pochi anni fa erano completamente sconosciuti.

Oggi appare chiaro perché, sulla sua identità e sulla straordinaria azione da lei intrapresa, per lunghissimi anni non si sia saputo nulla.

Diana Obexer nacque a Innsbruck, in Austria, il 15 gennaio del 1891. Si trasferì a Zagabria nel 1919, sposata con un chirurgo dal quale acquisì il cognome, Budisavljević. Di lui sappiamo che fu un medico apprezzato e appartenente alla comunità religiosa ortodossa, fatto che non gli impedì di dichiararsi croato e di passare miracolosamente illeso attraverso gli anni del cosiddetto “Stato indipendente Croato” governato dagli ustascia collaborazionisti di fascismo e nazismo.

Nel periodo buio, i primi anni quaranta del secolo scorso, Diana Budisavljević scoprì molto presto l’agghiacciante verità dei campi di concentramento non molto distanti dalla capitale croata. Le sofferenze delle donne serbe, rom ed ebree insieme ai loro figli nella vicina Lobograd, uno dei campi di detenzione, furono il suo primo contatto con l’inferno messo in atto a pochi passi da lei, e segnarono ufficialmente l’inizio dell’”Azione di Diana Budisavljević”, come lei stessa la ribattezzò.

Durante questa azione – inizialmente pensata come fornitura di prodotti di prima necessità alle donne e ai minorenni detenuti nei diversi campi di concentramento, con l’aiuto del Comune Ebraico di Zagabria – furono salvati 12.000 bambini.

Provenienti per lo più dal monte Kozara in Bosnia Erzegovina e da Kordun, zona montuosa della Croazia, questi bambini, per i quali la morte sarebbe altrimenti stata l’unica speranza di veder concluse le proprie sofferenze, furono salvati proprio grazie alla decisione di Diana Budisavljević di dare il via ad una vera e propria evacuazione dei minorenni da campi di concentramento come quelli di Stara Gradiska, Mlaka, Jasenovac, Gornja Rijeka e Jablanac.

Un’operazione che fu portata a termine non solo con l’obiettivo di salvare le vite di quei ragazzini innocenti, ma anche mettendo in piedi un archivio con tutta la documentazione indispensabile a tenere traccia dei loro genitori biologici con la finalità di poterli ricongiungere alla rispettive famiglie al termine della guerra.

Il diario personale

Solo nel 2003 si sono potuti ricostruire i dettagli di questa grande iniziativa di impegno civico, grazie ai documenti conservati nell’Archivio Statale della Repubblica di Croazia e all’iniziativa della nipote di Diana Budisavljević. Silvia Szabo, nipote di Diana Budisavljević, ha infatti deciso nel 1983 di renderne pubblico il diario personale che ricostruisce il periodo che va dal 1941 al 1947. Nella raccolta sono contenuti 80 documenti originali che permettono di ricostruire i nominativi di tutte le persone che aiutarono la Budisavljević a realizzare l’evacuazione dei minori dai campi: una rete segreta che fornì supporto logistico, nella produzione di documenti falsi e nell’assicurare ospitalità ai piccoli una volta che questi venivano messi in salvo.

Una memoria scomoda

Perché siano passati altri 20 anni da quando la nipote decise di aprire il diario della nonna e il momento della pubblicazione dello stesso, nel 2003, è questione che fa riferimento alla rimozione della memoria. La pubblicazione nel 2003 potrebbe essere dovuta, tra le altre cose, al termine dei 20 anni del governo dell’HDZ, il partito di Franjo Tudjman, e alla vittoria dei partiti della sinistra croata.

Il primo fatto storico che ci fa capire come e perché questa eroina finì nel dimenticatoio è il sequestro di tutta la documentazione, un archivio immenso contenente le identità di tutti i bambini salvati, da parte degli ufficiali dell’OZNA (Reparto per la Protezione del Popolo) nel maggio del 1945, subito dopo la fine della guerra sul territorio ormai della nuova Jugoslavia. Fortunatamente il diario si salvò dalla confisca ed è divenuto la base per una ricostruzione storica firmata dalla professoressa Marina Ajduković, che definisce l’iniziativa di Diana Budisavljević come la “prima opera umanitaria in Croazia” e come l’inizio della prassi di assistenza sociale e tutela delle categorie deboli e minacciate.

Si può oggi comprendere senza troppi sforzi perché la biografia di questa donna risultasse tanto scomoda per il regime comunista instauratosi dopo la guerra. È facile capirlo se si pensa che ci troviamo davanti alla storia di una donna austriaca, cattolica praticante, originaria di una famiglia dell’alta borghesia e per di più sposata con un chirurgo di religione ortodossa. Si comprende ancora meglio come la nuova classe dirigente dell’epoca, impegnata in uno sforzo notevole di indottrinamento, si sentisse impotente e disarmata di fronte al fatto che fu proprio il marito, il dottor Julije Budisavljević, misteriosamente sopravvissuto al regime ustascia, ad aiutare la propria moglie mettendola in contatto con le persone che in quell’epoca decidevano la vita o la morte, facendo in modo che il suo cognome le aprisse tante porte in quanto garanzia di discrezione e fiducia.

A complicare il quadro, la documentazione testimonia inoltre che sin dall’inizio, a sostenere l’iniziativa umanitaria di Diana Budisavljević, furono i vertici della Caritas di Zagabria, un soggetto ritenuto tra i “traditori” nell’immediato dopoguerra, in virtù della stretta associazione con la Chiesa cattolica. Una messa al bando che si fondava in parte sui gravi episodi di collaborazionismo con il regime nazifascista da parte delle gerarchie ecclesiastiche, ma che viene in parte stemperato proprio dai fatti raccolti nel diario della Budisavljević: tra le pagine si trova infatti addirittura il nome del Cardinale Alojzije Stepinac, che fu personalmente coinvolto (con il notevole ritardo di due anni come lamentato dall’autrice) nel salvataggio di alcuni dei bambini dai boia del regime ustascia. Lo stesso Stepinac inoltre si sarebbe speso per la costruzione di una solida rete di famiglie croate cattoliche disposte ad ospitare i piccoli rifugiati in città come Zagabria, Sisak e Jastrebarsko.

Nel suo diario, Diana nomina anche Camillo Bròssler, uno degli alti funzionari del regime croato dell’epoca, a capo del ministero delle Politiche sociali. Bròssler fu il fondatore del Reparto per l’assistenza sociale dei bambini ed adolescenti, e rappresenta dunque un’altra figura di origini germaniche, persona di fiducia del regime, coinvolto nello sforzo di salvare un numero altissimo di bambini e adolescenti.

Tutti questi elementi rendono la storia personale di Diana Budisavljević difficilmente riconciliabile con la nuova storia che ci si proponeva di scrivere nel secondo dopoguerra.

La memoria dei giusti

Questi sei decenni di silenzio sono un errore imperdonabile della storia moderna. Un silenzio che forse fu anche uno dei motivi per i quali Diana decise di lasciare per sempre la Jugoslavia e di tornare a Innsbruck, la sua città natale, nella quale trascorrerà gli ultimi anni della sua vita straordinaria, dal 1972 fino alla sua morte il 20 agosto del 1978.

Diana Obexer Budisavljević, Donna Coraggio, fu la seconda madre di tutti i 12.000 bambini salvati da morte certa. La sua vicenda non coincideva con la versione della storia voluta dai comunisti jugoslavi, in quanto l’intera azione non era stata organizzata da loro. Nemmeno alla classe dirigente della Croazia indipendente nata dopo il 1990 andava bene la storia dei 12.000 bambini salvati, in quanto oggi come 20 anni fa, la classe politica è impegnata a sminuire le dimensioni dello sterminio di massa condotto nei campi di concentramento di cui il più conosciuto era quello di Jasenovac.

I riconoscimenti ufficiali, le vie e le piazze che da poco portano il suo nome, arrivati tanti anni dopo la sua morte, ci servano oggi per essere consapevoli di questa vicenda di umanità e altruismo. L’opera più recente sulla straordinaria impresa di Diana Obexer Budisavljević risale all’autunno del 2012, porta il titolo di “Dianin list” (La lista di Diana) ed è opera di Dana Budisavljević e Miljenka Cogelja. Spero renderà questa storia alla portata di tutti.

Mi piace concludere questo pensiero scritto ricordando l’ultima scena della maestosa opera cinematografica del 1993 del regista Steven Spielberg, intitolata “Schindler’s List” in cui ciascuno dei sopravvissuti appoggia un sasso sulla tomba della persona alla quale deve la propria vita. In quella scena, i sopravvissuti dopo la guerra erano 1.100. Cerco per qualche istante di immaginare una piccola collina fatta dai 12.000 sassi, in qualche cimitero a Innsbruck, appoggiati dalle mani dei, all’epoca, piccoli, indifesi, discriminati ma comunque alla fine fortunati esseri umani.

Il Diario di Diana Obexer-Budisavljević (immagine tratta da Wikipedia)
Il Diario di Diana Obexer-Budisavljević (immagine tratta da Wikipedia)

Fiera del libro di Belgrado: sparare con un libro

Fiera del libro di Belgrado: sparare con un libro
La fiera del libro a Belgrado (di  Jovan Popović, da Wikimedia Commons)
La fiera del libro a Belgrado (di Jovan Popović, da Wikimedia Commons)
La presentazione alla fiera del libro di Belgrado di una pubblicazione sui crimini di Srebrenica rivela, ancora una volta, l’impossibilità di scrivere una storia condivisa dei fatti degli anni ’90. Ne parla Edvard Cucek in un articolo apparso il 5 novembre su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.

La Fiera del Libro di Belgrado, giunta ormai alla 64esima edizione, anche quest’anno ha ospitato uno stand gestito direttamente dal governo della Republika Srpska (RS), una delle due entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina.

Il padiglione dedicato alla letteratura della RS è stato inaugurato lo scorso 21 ottobre dalla ministra dell’Istruzione e della Cultura della RS Natalija Trivić. La ministra si è rivolta ai presenti dicendo che parla come se fosse a casa propria, sottolineando che all’interno di un popolo non esistono confini soprattutto quando si parla di letteratura e cultura comune.

Tra i vari titoli di opere presenti anticipati in quell’occasione dalla ministra ne è spiccato uno, una di quelle pubblicazione che fanno crollare ogni speranza sul fatto che la storia dei conflitti che negli anni ’90 hanno dilaniato la Jugoslavia possa essere almeno in parte condivisa.

800 pagine di revisionismo

Si tratta di una raccolta di 800 pagine di testi risultato delle “ricerche” di 48 coautori. Il titolo: “Srebrenica – realtà e manipolazioni”. La pubblicazione è stata finanziata dal governo della RS ed ha – utilizzando le parole degli stessi funzionari della RS – tra gli obiettivi quello di “smontare il mito costruito sui crimini fabbricati a Srebrenica”.

La pubblicazione fa seguito ad un convegno tenutosi a Banja Luka nell’aprile di quest’anno, organizzato e sostenuto dall’“Unione degli ufficiali dell’ex esercito dei serbo-bosniaci”, dall’”Università indipendente di Banja Luka” e dall’“Istituto per le ricerche del martirio dei serbi nel ventesimo secolo”.

Nel libro, tradotto anche in inglese, viene apertamente negato il genocidio di Srebrenica, interpretando quanto accaduto a Srebrenica e nei dintorni nel 1995 come un “mito”. Una tesi del resto affermata in diverse occasioni anche dall’ex presidente della stessa RS e oggi membro della Presidenza della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik.

Le conclusioni del convegno di Banja Luka

Nelle conclusioni pubblicate a seguito del convegno si può leggere: “Le opinioni pragmatiche dei giudici del Tribunale di Aja sui crimini e le responsabilità dei serbi per quanto accaduto a Srebrenica non devono essere accettate perché sono lontane dalla verità e le sentenze del tribunale non possono essere un ostacolo alla ricerca scientifica al fine di stabilire la verità definitiva”.

Posizione ribadita poi anche nel libro presentato a Belgrado il cui gruppo di autori in modo di fatto unanime si oppone alle sentenze del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia sostenendo che tutta questa storia non è altro che un’invenzione per incolpare il popolo serbo e i loro governi ed eserciti su entrambe le sponde del fiume Drina. Non si tratterebbe di altro che un complotto di livello internazionale.

Ad esempio, senza addurre alcuna prova se non la propria parola, l’ex ufficiale dell’esercito serbo-bosniaco Nikola Mijatović Miša afferma: “In qualità di membro del Comando dell’Esercito della Republika Srpska presente sul pericolosissimo campo di battaglia intorno a Sarajevo, affermo che nel 90% dei comuni della Republika Srpska non è stato commesso alcun crimine di guerra o stupro. A differenza della Federazione di Bosnia Erzegovina, dove la maggior parte dei mostruosi crimini di guerra sono stati commessi sui territori sotto controllo delle formazioni militari mussulmane”.

Data la presentazione di questa scandalosa pubblicazione alla Fiera del libro di Belgrado non ci si può non chiedere quanto possano essere stati sinceri il Presidente serbo Aleksandar Vučić oppure il membro della Presidenza bosniaco erzegovese Milorad Dodik quando hanno deciso di andare a inchinarsi a Potočari (Srebrenica) davanti alle vittime del genocidio. Era solo una mossa calcolata per compiacere la politica mondiale e per passare come dei politici responsabili? Per poi tornare alle menzogne di quelle tragiche 800 pagine?

 

Haludovo: la Monte Carlo oltre Cortina di ferro

Haludovo: la Monte Carlo oltre Cortina di ferro

La parabola di un audace esperimento capitalista, avviato nella Jugoslavia socialista degli anni ’70, raccontata in un articolo di Edvard Cucek apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa il 18/07/2019.

Nella Jugoslavia socialista quanto di più opulento potesse esprimere la società capitalista è accaduto sull’isola di Krk nei primi anni ’70. L’artefice? Bob Guccione, fondatore ed editore della rivista per adulti Penthouse, che investì 45 milioni di dollari per un complesso che oggi è solo rovine

Palace Hotel Haludovo abbandonato, Malinska - (foto di Tor Lindstrand. CC-BY-SA-2.0, da Wilimedia CC)
Palace Hotel Haludovo abbandonato, Malinska – (foto di Tor Lindstrand. CC-BY-SA-2.0, da Wilimedia CC)

Alla fine degli anni sessanta il fondatore ed editore della rivista per adulti Penthouse (l’unica vera concorrenza dell’epoca a Playboy), il milionario Bob Guccione  , scoprì Malinska sull’isola di Krk (Veglia), allora Jugoslavia. Poco dopo venne a conoscenza di Haludovo, con il suo complesso alberghiero ancora nascente. Inaugurato nel 1971, sulla superficie di quasi 100.000 m2, quest’ultimo era composto da due eccellenze del turismo jugoslavo: l’Hotel Tamaris e il Palace Hotel, che potevano ospitare senza difficoltà 1500 persone.

Pare che proprio durante un suo soggiorno a Malinska prese forma l’idea di avviare lì una nuova avventura. Un po’ per l’incoraggiamento del suo amico Čedo Komljenović – al pubblico jugoslavo conosciuto come direttore della famosa rivista jugoslava di Zagabria “Start” ed al resto del mondo (soprattutto in quello della fotografia erotica) conosciuto come Monty Shadow – e un po’ perché gli affari dei suoi casinò a Londra stavano registrando un notevole calo, si decise per un notevole investimento: Guccione mise sul piatto 45 milioni di dollari per inserire nel neonato complesso di lusso anche il “Penthouse Adriatic Casinò Club”, con 5 stelle a garanzia di un lusso vertiginoso.

Dalla matita del geniale architetto Boris Magaš – autore dello stadio di calcio Poljud  a Spalato e di tanto altro – uscì una vera e propria opera d’arte insuperabile, sia esteticamente sia come contenitore di offerte turistiche inimmaginabili sino ad allora nella tradizione turistica isolana, nata più di mezzo secolo prima. Guccione amava chiamare la sua impresa “ottima ricetta per placare la guerra fredda”: un casinò – e tanto altro – per soddisfare qualsiasi esigenza dei ricchissimi occidentali sul suolo di un paese socialista. In realtà – oltre che per trarne il profitto – si trattò di un progetto che unì la sua voglia di notorietà e il desiderio di realizzare qualcosa che mai si era visto da quella sponda dell’Adriatico.

L’investitore ufficiale fu il colosso industriale “Brodokomerc” di Fiume, il quale formalmente come società statale era il gestore del complesso. Ma era Guccione che in realtà, con l’aiuto del consiglio degli operai (all’epoca inevitabile strumento della cosiddetta autogestione del mondo di lavoro nel sistema socialista) dettava le regole. Motivato dalla ottima collaborazione con la rappresentanza operaia – spesso scherzava che le trattative con loro andavano sempre a buon fine in quanto molto vicini alla sua mentalità siciliana – Guccione si prese l’impegno di investire altri 500.000 dollari in pubblicità sulla sua e altre riviste in Europa ma anche Oltreoceano. Così spesso su più pagine di Penthouse (ciascuna per un costo di 15.000 dollari) apparivano pubblicità del tipo “Resort di un lusso stravagante dall’altra parte della cortina di ferro”.

Impatto ambientale e culturale

Anche se negli anni settanta Malinska e l’intera isola di Krk avevano già una tradizione turistica che datava più di mezzo secolo, l’avvento di Guccione implicò una vera e propria rivoluzione. Una comunità ancora patriarcale, ufficialmente secolarizzata ma nella sua quotidianità molto cattolica, si trovò a dover gestire fenomeni e situazioni completamente sconosciute. Già l’apertura dell’aeroporto di Krk – come aeroporto ufficiale della vicina città costiera di Fiume – aveva cambiato la vita degli isolani e il turismo di massa diventò una novità con tutti i problemi che portava con sé. La presenza di bellezze femminili dell’intero globo invitate da Guccione e battezzate “coccolone” in un paesino fondato da pescatori ne scombussolò gli abitanti.

All’ingresso nel villaggio spesso apparivano pannelli pubblicitari, pari a quelli dell’Europa occidentale, che riportavano donne completamente nude fotografate sulle spiagge locali mentre si tuffavano nel mare cristallino lasciando sulla sabbia costumi da bagno di minime dimensioni. Troppo “osé” per quell’epoca, pur avendo il turismo reso la vita dell’intera comunità molto più agiata. A differenza dai resort di lusso di oggi l’intero complesso di Haludovo, su tutta la superficie pari a 15 stadi da calcio, è inoltre sempre stato senza alcun recinto ed in ogni sua parte accessibile alla gente del posto o ai turisti che soggiornavano altrove. Il lusso – e la rivoluzione culturale – pareva alla portata di tutti.

L’inaugurazione e i primi ospiti famosi

L’inaugurazione nel 1972 aprì una serie di sontuose feste memorabili. Non mancarono i rappresentanti del governo jugoslavo e altri vertici del mondo politico. Ancora oggi non si dimenticano i tempi in cui “scorrevano fiumi di champagne”. Le feste “all’americana” continuarono almeno per un anno, tra hotel, casinò e le “offerte penthouse”. I clienti in una grande hall venivano accolti da ragazze in abiti da cameriere e fin da subito si percepiva lo spirito voluto da Guccione. All’inizio lavoravano 50 ragazze americane, poi raggiunte da altre 20 europee. Ci vollero dei mesi per aver nello staff anche le prime ragazze del posto.

Divenne frequente poter vedere esibirsi per l’intera stagione musicisti britannici ed americani sui palchi degli alberghi. Ed a capo della modernissima cucina venne subito messo uno dei migliori cuochi della ex Jugoslavia, se non il migliore, lo sloveno Ludvig Križanec.

A ricordarsi di tutti i personaggi famosi che soggiornarono ad Haludovo è Zdenko Cerović, arrivato a lavorarvi negli anni ’70 da studente alla reception sino a divenirne direttore, purtroppo l’ultimo. “Qui soggiornò anche Saddam Hussein con uno dei figli in una delle suite più lussuose dell’hotel e mi ricordo quando le cameriere dopo la loro partenza e dopo che ci avevano lasciato una mancia di 1000 dollari, trovarono una pistola tra le lenzuola. Era una situazione delicata e chiamare la polizia non era pensabile. Nessuno voleva scandali diplomatici. Fecero una telefonata dalla direzione all’aeroporto invitando qualcuno della scorta a tornare per verificare se ‘l’orologio’ che il figlio di Saddam aveva dimenticato era effettivamente il suo”, ricorda Cerović in una delle tante interviste rilasciate ai giornali tra le quali una anche a “Novi List”  di Fiume.

Tra gli ospiti vi furono poi Olof Palme – in quegli anni presidente del Partito Socialdemocratico svedese oltre che primo ministro, George Orson Welles – regista, attore, produttore cinematografico statunitense, oltre a tutti gli industriali che all’epoca contavano. E molti ospiti importanti non vennero mai alla luce, esigendo l’anonimato. Già nel 1972, inoltre, diventò operativo il volo diretto tra New York e l’isola di Krk.

Tempi di gloria e rapido tracollo

È stato più lungo il tempo di progettazione e costruzione del complesso che quello del suo splendore. A poco più di un anno dalla clamorosa inaugurazione del “Penthouse Adriatic Casinò Club” cominciò il suo lento ma inesorabile declino. Purtroppo la guerra fredda non aiutò questo business di lusso e spensieratezza e nemmeno Bob Guccione riuscì a placarla. Dopo poco più di un anno di festini e celebrazioni da record il casinò chiuse i battenti. Causa i costi esorbitanti di mantenimento e le leggi sull’azzardo sempre più restrittive nel 1973 l’“Haludovo” fallì. Guccione, dal canto suo, morì negli Usa nel 2010 in difficoltà finanziarie.

Il complesso alberghiero rimase aperto ancora una ventina d’anni e nonostante dalla fine degli anni Settanta e nel decennio successivo fosse diventato la meta preferita della cosiddetta “crvena buržoazija“ (termine utilizzato dagli studenti in Jugoslavia, durante le proteste del 1968, ndr), ovvero la classe diventata benestante grazie alla sua posizione nella gerarchia politica socialista e comunista, non riuscì mai a risollevarsi economicamente. Dopo un periodo di autogestione e diversi passaggi di proprietà negli anni Ottanta, sempre riducendo di più le offerte turistiche, arrivò al limite della chiusura. Poi divenne luogo di accoglienza dell’ondata di profughi provocata dalle guerre jugoslave all’inizio degli anni Novanta e il complesso chiuse definitivamente i battenti.

Tradimento e ultimi giorni del gioiello di Quarnero

È sempre Zdenko Cerović a ricordare il suo primo incontro con un rappresentante di rilievo dell’appena proclamata Repubblica di Croazia nel 1991: “Con un ritardo di due ore rispetto all’appuntamento si presentò all’ingresso del Palace Hotel Janko Vranyczany Dobrinović, nuovo ministro del Turismo. Dopo un tiepido saluto la prima cosa che disse fu ‘Dobbiamo demolire tutto, questo è un obbrobrio comunista’”.

Invece della demolizione arrivò la privatizzazione. L’intero complesso fu venduto nel 2000 al commerciante dei diamanti armeno Are Abramyan e alla sua “Isleta Trading Limited”, con sede a Cipro. Quello fu l’ultimo colpo che porterà alla chiusura, nel 2004, anche di quel poco che era ancora in funzione. Quello stesso anno, paradossalmente, nonostante il numero ingente di prenotazioni, mai registrato dall’inizio della guerra e dalla temporanea chiusura per ospitare i profughi, arrivò l’ordine della proprietà di cancellarle tutte le prenotazioni e chiudere i battenti, ponendo fine a questa straordinaria storia.

L’obiettivo era quello di demolire tutto per partire da zero con la concessione per edificare un nuovo resort, concessione ad oggi mai arrivata. L’ennesima battuta di arresto è avvenuta a novembre 2018  , quando Are Abramyan ha presentato ai cittadini e alla municipalità di Malinska il progetto di risanamento del complesso. Il magnate armeno ha ricevuto un netto rifiuto, perché nel progetto richiedeva che una parte del lungomare gli venisse concesso per uso esclusivo degli ospiti del resort.

“Un tradimento preannunciato – sottolinea Zdenko Cerović in numerose interviste – del resto per questioni ideologiche il nuovo governo dai primi anni Novanta voleva già distruggere tutto”. Oggi Haludovo è in rovina, in attesa che prevalga il buon senso o la demolizione definitiva.